Sicilian gleanings

 

 

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8.8 spigolature.siciliane

 

 

 

 

Spigolature di curiosità, tradizioni e leggende nella gastronomia siciliana a cura di enzob.

presentate nell’ambito della 3° rassegna virtuale “Autunno all’italiana_online”.

 

 

8.8.0 carta.gastronomica.della.siciliaLe origini della cucina siciliana risalgono ai tempi delle colonie greche di Sicilia (VI-III sec. AC), quando l’eco dei banchetti della corte dei tiranni di Siracusa giungeva ad Atene. In verità la cucina dell’epoca non era molto elaborata: la base era costituita da pesci e carni varie insaporite con aglio ed erbe aromatiche e cucinate alla brace, da verdure crude o cotte (la cicoria selvatica imperava su ogni tavola), il tutto innaffiato dal vino prodotto dai vigneti siciliani già allora celebri. La pasticceria invece doveva essere più raffinata, a base di mandorle e miele, ed era rinomata in tutta la Grecia.

Questa base, ricca ma sobria, si caricherà nei secoli a venire di sapori nuovi, arricchendosi con le culture con le quali l’isola verrà a contatto. Le contaminazioni maggiori sono sicuramente quelle arabe (i dolci, l’agrodolce, lo zafferano e le altre spezie, l’uvetta, il cuscus), francesi (le salse, i gateaux, la raffinatezza delle elaborazioni) e spagnole (la sontuosità delle presentazioni, le insalate, le frittate).

Segue l'epoca dei "monsù", il cui nome proviene dai cuochi francesi al seguito dei Borboni, una moda subito adottata dalla nobiltà locale, ai quali si deve l'estro di pietanze come la caponata di melenzane, la frittella di fave, carciofi e piselli, la pasta con i broccoli in tegame.

Accanto alla tradizione colta bisogna ricordare quella popolare, non meno interessante dell’altra: vi si annoverano soprattutto saporite minestre di verdure selvatiche che, insieme a formaggio di pecora, olive e cipolle, e al pane, costituivano fino alla metà di questo secolo la base dell’alimentazione del contadino e del pastore. Retaggio della cucina popolare è u' maccu, un passato di fave secche, condito in modo diverso a seconda delle zone dell’isola e usato anche in versione minestra con la pasta.

Va infine citata la famosa gastronomia da marciapiede siciliana, quell'insieme di "antipasti popolari" che si usa consumare direttamente davanti ai banchetti di cui pullulano i rioni popolari palermitani: le panelle, le stigghiole, il pane con la meusa, lo sfincione, e le friggitorie che coi loro odori inondano le strade circostanti invitando i passanti ad assaggi che costituiscono spesso veri e propri pasti in piedi.

[fonte: https://digilander.libero.it]          

 

 

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          La Sicilia greca a tavola

 

 [Nella foto (1900 circa) il c.d. Tempio dei Dioscuri - Valle dei templi, Agrigento -, simbolo iconografico della Sicilia greco-romana]

8.8.1 la.sicilia.greca

 

La storia della gastronomia siciliana inizia come una favola con il classico “c’era una volta”. C’era una volta la civiltà “classica” in Sicilia: le colonie greche. I Greci provenienti dalle Cicladi nel 735 AC sbarcano sul litorale ionico, in prossimità dell’odierna Naxos, ed i Corinzi di Archia nel 734 AC a Siracusa. Diverse furono le novità che apportano questi colonizzatori e, per restare in tema, da un punto di vista alimentare, portarono la loro impronta in numerosi cibi e bevande. L’arte del fare il vino viene perfezionata da loro, l’ulivo, il farro ed altri prodotti già esistenti nell’isola vennero utilizzati in modo diverso con ottimi risultati.

Il farro, ad esempio, veniva utilizzato in Sicilia prima dei Greci per fare il pane, in seguito venne utilizzato anche in altro modo. Con la farina di farro si ottenevano delle primordiali tagliatelle molto saporite e, qualcuno sostiene, anche dolci assimilabili alla pasta frolla. Con il farro macinato grossolanamente si facevano delle ottime zuppe, e con il seme intero assieme a fave, lenticchie, ceci ed interiora di animali, la famosa Puls Fabata, citata anche da Plinio.

All’epoca dei primi insediamenti greci, sulle coste ioniche abitavano i Siculi ed in quelle tirreniche prosperavano i Sicani e gli Elimi. Queste antiche popolazioni avevano eretto potenti e progredite città, dove almeno da tre millenni si era sviluppata una cucina autoctona. L’integrazione di queste due civiltà mediterranee ha arricchito tutte le arti, compresa quella culinaria ed ha fatto nascere il gusto per la buona cucina che trovò più tardi grande accoglienza in Grecia. Qui, a poco a poco, gli elaborati manicaretti si sostituirono ai voluminosi arrosti dei tempi omerici ed alla maza, la schiacciata con farina d’orzo.

 

 

          Le arancine di Montalbano

 

  8.8.2 le.arancine

Si dice arancini o arancine? Qual è il vero nome della deliziosa palla di riso panata e fritta, da molti considerata l'emblema della gastronomia palermitana e, più in generale, siciliana? L'approdo di questa antica pietanza agli onori della letteratura, attraverso le pagine di Andrea Camilleri (Gli arancini di Montalbano) non ha certo risolto l'annosa tenzone.

Camilleri sembra accreditare la versione al maschile, diffusa in tutta Italia, quanto meno per uniformarsi all'uso comune. Ma per lo storico palermitano Gaetano Basile non ci sono dubbi: il nome di questa leccornia deriva dalla sua somiglianza morfologica con le arance che, fra parentesi, costituiscono il prodotto d'eccellenza nella Conca d'Oro. E poiché l'Accademia della Crusca ha da lungo tempo stabilito che “aranci” sono gli alberi e “arance” i frutti, non c'è dubbio che il pasticcio di riso, nel palermitano, venisse chiamato arancina e che la deformazione al maschile nelle altre provincie siciliane sia dovuta a un errore. Ma se è vero che l'Italiano, come tutte le lingue vive, si evolve continuamente in conseguenza di modifiche nell'uso delle parole, se è vero che i dizionari prendono sistematicamente atto di queste trasformazioni che nessuno può correggere ex cathedra, la questione pare quanto meno oziosa: gli italiani hanno deciso di chiamarli arancini, e nessun danno potrà derivarne per le sorti della nazione. Meglio concentrarsi sulla storia e sulle caratteristiche di questa pietanza.

 
 

              La cannamela

 

[Tecnica di estrazione dello zucchero: incisione di scuola fiamminga - Jan van der Straet (Stradanus), 1580-1605ca - British Museum]

8.8.3 la.cannamela
 

La canna da zucchero, una pianta originaria dell’Indonesia e della Nuova Guinea, si è diffusa gradualmente in Indocina e da lì in tutto il Medio Oriente, dove già i persiani ne facevano uso. La conoscenza di questo prodigioso vegetale in grado di “produrre un miele che non ha bisogno di api”, come riportato anche nelle memorie di Alessandro Magno, si diffuse presto tra i popoli arabi, che ne affinarono la lavorazione ed iniziarono ad utilizzarlo nella loro famosa tradizione dolciaria.

Ed ecco come la canna da zucchero, o cannamela, fu introdotta in Sicilia. Al loro arrivo in una nuova area, i coloni arabi portavano sempre alcune delle piante da loro utilizzate quotidianamente. Alla dominazione araba dobbiamo infatti arance, limoni, melanzane, carrube, cotone, riso, pesche, albicocche e, appunto, canne da zucchero. La coltivazione e la lavorazione di questa pianta è attestata dagli scritti di Ibn Ankal, in cui si legge: Lungo la spiaggia, nei dintorni di Palermo, cresce vigorosamente la canna di Persia e copre interamente il suolo; da essa si estrae il succo per pressione.

Dopo la dominazione araba la produzione di zucchero in Sicilia continuò, ma solo in piccole quantità, sufficienti al fabbisogno della corte dei re Normanni, i quali fecero costruire dei nuovi “trappeti” (gli impianti di lavorazione della canna da zucchero) nei pressi di Palermo e Monreale. Durante le crociate, con l’importazione dello zucchero da parte di genovesi e veneziani, da loro chiamato “sale arabo”, la domanda di questo bene di lusso crebbe rapidamente. Tutti i nobili d’Europa iniziarono ad acquistare il prezioso zucchero, che esponevano sulle loro tavole come segno di potere e ricchezza. 

 
 

         Il Marsala

 

[Il “metodo soleras” nelle cantine Florio a Marsala]

  8.8.4 il.marsala 2

Il Marsala è un vino liquoroso che deve la sua notorietà a due mercanti inglesi, i fratelli Woodhouse, che nel 1770, durante un viaggio in Sicilia per affari, scoprirono questo vino che ricordava gli Sherry, i Porto, i Madera e che avrebbe potuto trovare mercato in madrepatria. Dopo aver constatato il successo del Marsala spedito in Inghilterra, i fratelli Woodhouse avviarono in Sicilia una loro produzione.

Tanto successo attirò un altro inglese, Benjamin Ingham, che aprì a Marsala una nuova cantina, affiancato in seguito dal nipote Joseph Whitaker. A loro si aggiunsero nel 1834 le Cantine Florio, che in soli venti anni si imposero sul mercato conquistando un quarto della produzione e rilevando successivamente il marchio Woodhouse. Nel 1904 la nuova società SAVI della Florio&c. era la maggiore produttrice di Marsala, che aveva ormai soppiantato in Italia il tradizionale Vermouth, e nel 1928 assorbe anche la Ingham&Whitaker restando fino ad oggi leader incontrastata del mercato mondiale. 

Il vino Marsala presenta una grande differenziazione all’interno della DOC in base a come viene prodotto, dando luogo a vini anche molto diversi tra loro. La prima distinzione da fare riguarda la colorazione: viene prodotto nei colori Oro, Ambra e Rubino. Per le prime due varietà vengono usati i vitigni Grillo, Catarratto, Inzolia, Damaschino e Nero d’Avola; per la varietà Rubino vengono impiegate principalmente Perricone, detto Pignatello, Calabrese, detto Nero e Nerello Mascalese.

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           Gli spaghetti prima di Marco Polo
 
  8.8.5 gli.spaghetti

La prima attestazione della pasta essiccata in Italia e dell'esistenza stessa dell'industria della pasta, si rintraccia nella descrizione della Sicilia tramandataci dal geografo arabo Idrisi al tempo di Ruggero II, nel XII secolo.

Nel Libro di Ruggero (Kitāb Rujārī) pubblicato nel 1154, Al-Idrisi, geografo di Ruggero II di Sicilia, descrive Trabia, un paese a 30 km da Palermo, come una zona con molti mulini dove si fabbricava una pasta a forma di fili leggermente arrotondati, evolutasi dal làganum di epoca romana, che successivamente prenderà il nome di vermicelli e in seguito di spaghetti, ma che al tempo era chiamata con il termine più generico di itrya (tuttora in uso anche per alcune altre tipologie di paste lunghe meridionali, chiamate con il vocabolo dialettale trija o tria), e che veniva spedita con navi in abbondanti quantità per tutta l'area del Mediterraneo sia musulmano che cristiano, dando origine a un commercio molto attivo, che dalla Sicilia si diffondeva soprattutto verso nord lungo la penisola italica e verso sud fino all'entroterra sahariano, dove era molto richiesta dai mercanti berberi.

«...la famosa fettuccina secca derivataci dalla Sicilia araba, che si produceva nel sud Italia...»

(Anna Martellotti, I ricettari di Federico, II, p. 95)

Verso la fine del XII secolo, i primordiali spaghetti siciliani, grazie agli intensi commerci che l'isola intratteneva con la parte peninsulare del regno, iniziarono a diffondersi sempre di più ad Amalfi e a Napoli e poi, tra il XIII e il XIV secolo, a Salerno; luoghi in cui acquisiranno definitivamente il loro aspetto e le tecniche di lavorazione ed essiccazione attuali.

 
 
          Le cassate
 
  8.8.6 le.cassate
 

La storia dell'origine della cassata conduce secondo un’opinione diffusa ma non provata alla dominazione araba in Sicilia (IX-XI secolo). Gli arabi infatti avevano introdotto in Sicilia la canna da zucchero, il riso e gli agrumi, incrementato la coltivazione della mandorla, già introdotta in Sicilia dai Fenici.

Insieme alla ricotta di pecora, che si produceva in Sicilia da tempi preistorici, erano così riuniti tutti gli ingredienti base della cassata, che all'inizio non era che un involucro di pasta frolla farcito di ricotta zuccherata e poi infornato.

Nel palermitano è ancora molto usata la prima versione di questa torta di ricotta, denominata Cassata al forno, priva della classica decorazione con canditi e pasta reale (o pasta di mandorle). È un involucro di pasta frolla che contiene all'interno la crema di ricotta di pecora zuccherata con gocce di cioccolato fondente e piccolissimi pezzetti di canditi (arancia), cotta in forno e poi cosparsa di zucchero a velo.

Nel periodo normanno, con l'invenzione da parte delle monache del Convento della Martorana a Palermo della pasta di mandorle, un impasto di farina di mandorle e zucchero con cui sono fatti i frutti di martorana, colorata di verde con estratti di erbe, si sostituì il precedente involucro di pasta frolla con un involucro di pasta reale che circonda gli strati di pan di spagna e di crema di ricotta. Si sarebbe passati così dalla cassata al forno a quella composta a freddo. 

 
 

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